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Aura Badanti Bologna: Alzheimer

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Aura Assistenza
view post Posted on 16/3/2016, 09:03




Alcune nozioni generiche

La malattia di Alzheimer-Perusini, detta anche morbo di Alzheimer, demenza presenile di tipo Alzheimer, demenza degenerativa primaria di tipo Alzheimer o semplicemente Alzheimer, è la forma più comune di demenza degenerativa progressivamente invalidante con esordio prevalentemente in età presenile (oltre i 65 anni, ma può manifestarsi anche in epoca precedente).
Si stima che circa il 60-70% dei casi di demenza sia dovuta a Alzheimer disease (AD). Il sintomo precoce più comune è la difficoltà nel ricordare eventi recenti (perdita di memoria a breve termine).
Con l'avanzare dell' età possiamo avere sintomi come: afasia, disorientamento, cambiamenti repentini di umore, depressione, incapacità di prendersi cura di sé, problemi nel comportamento.

La patologia è stata descritta per la prima volta nel 1906, dallo psichiatra e neuropatologo tedesco Alois Alzheimer.
Nel 2006 vi erano 26,6 milioni di malati in tutto il mondo, e si stima che ne sarà affetta 1 persona su 85 a livello mondiale entro il 2050.

La causa e la progressione della malattia di Alzheimer non sono ancora ben compresi. La ricerca indica che la malattia è strettamente associata a placche amiloidi e ammassi neurofibrillari riscontrati nel cervello, ma non è nota la causa prima di tale degenerazione.
Attualmente i trattamenti terapeutici utilizzati offrono piccoli benefici sintomatici, e possono parzialmente rallentare il decorso della patologia; anche se sono stati condotti oltre 500 studi clinici per l'identificazione di un possibile trattamento per l'Alzheimer, non sono ancora stati identificati trattamenti che ne arrestino o invertano il decorso.
A livello preventivo, sono state proposte diverse modificazioni degli stili di vita personali come potenziali fattori protettivi nei confronti della patologia, ma non vi sono adeguate prove di una correlazione certa tra queste raccomandazioni e la riduzione effettiva della degenerazione. Stimolazione mentale, esercizio fisico e una dieta equilibrata sono state proposte sia come modalità di possibile prevenzione, sia come modalità complementari di gestione della malattia.
Circa il 70% del rischio si ritiene sia genetico con molti geni solitamente coinvolti.
Altri fattori di rischio includono:traumi, depressione o ipertensione.

Poiché per la malattia di Alzheimer non sono attualmente disponibili terapie risolutive e il suo decorso è progressivo, la gestione dei bisogni dei pazienti diviene essenziale. Spesso è il coniuge o un parente stretto, a prendersi in carico il malato, compito che comporta notevoli difficoltà e oneri. Chi si occupa del paziente può sperimentare pesanti carichi personali che possono coinvolgere aspetti sociali, psicologici e fisici.

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view post Posted on 17/3/2016, 09:09




I sintomi del morbo di Alzheimer di seguito riportati, hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico



1. La perdita di memoria che sconvolge la vita quotidiana

Uno dei segnali più comuni del morbo di Alzheimer è la perdita di memoria, soprattutto il dimenticare informazioni apprese di recente. Altri segnali sono il dimenticare date o eventi importanti, chiedere le stesse informazioni più volte, un sempre maggiore bisogno di contare su strumenti di ausilio alla memoria (ad esempio, note di promemoria o dispositivi elettronici) o su membri della famiglia per cose che si era soliti gestire in proprio.

2. Sfide nella programmazione o nella soluzione dei problemi

Alcune persone possono sperimentare cambiamenti nella loro capacità di sviluppare e seguire un programma o lavorare con i numeri. Possono avere problemi a ricordare una ricetta che era loro familiare o a tenere traccia delle bollette mensili. Esse possono avere difficoltà a concentrarsi, e impiegano molto più tempo di prima per fare le cose.

3. Difficoltà nel completare gli impegni famigliari a casa, al lavoro o nel tempo libero

Le persone che soffrono del morbo di Alzheimer hanno spesso difficoltà a completare le attività quotidiane. A volte, possono avere problemi per guidare l’auto verso un luogo familiare, per gestire un budget al lavoro o ricordare le regole di un gioco preferito.

4. Confusione con tempi o luoghi

Le persone che soffrono del morbo di Alzheimer possono perdere il senso delle date, delle stagioni e del passare del tempo. Possono avere difficoltà a capire qualcosa se non avviene immediatamente. A volte, possono dimenticarsi dove si trovano o come sono arrivati lì.

5. Difficoltà a capire le immagini visive e i rapporti spaziali

Per alcuni, avere problemi visivi è un segnale del morbo di Alzheimer. Tali individui possono avere difficoltà a leggere, a giudicare la distanza e a stabilire il colore o il contrasto. In termini di percezione, essi possono passare davanti a uno specchio, e pensare che qualcun altro sia nella stanza. Potrebbero non capire di essere loro la persona nello specchio.

6. Nuovi problemi con le parole nel parlare o nello scrivere

Chi soffre del morbo di Alzheimer può avere difficoltà a seguire o a partecipare a una conversazione. Questi individui possono fermarsi nel bel mezzo di una conversazione e non avere alcuna idea di come continuare, oppure può accadere che si ripetano. Potrebbero lottare con il vocabolario, avere problemi a trovare la parola giusta o chiamare le cose con il nome sbagliato (ad esempio, chiamare “orologio a mano” un “orologio da polso”).

7. Non trovare le cose e perdere la capacità di ripercorrere i propri passi

Le persone che soffrono del morbo di Alzheimer possono lasciare gli oggetti in luoghi insoliti. Possono perdere le cose e non essere in grado di tornare sui propri passi per trovarle di nuovo. A volte, esse possono accusare gli altri di averli rubati. Con il passare del tempo, ciò può verificarsi più frequentemente.

8. Ridotta o scarsa capacità di giudizio

Chi soffre del morbo di Alzheimer può sperimentare cambiamenti nel giudizio o nel processo decisionale. Ad esempio, queste persone possono dare prova di scarsa capacità di giudizio nel maneggiare il denaro, dando forti somme di denaro agli addetti al telemarketing. Possono prestare meno attenzione alla cura della propria persona o a tenersi puliti.

9. Ritiro dal lavoro o dalle attività sociali

Le persone che soffrono del morbo di Alzheimer possono iniziare a rinunciare a hobby, attività sociali, progetti di lavoro o attività sportive. Possono avere problemi nell’aggiornarsi sulla squadra sportiva preferita o nel ricordare come completare un hobby favorito. Esse possono anche evitare di socializzare a causa dei cambiamenti che hanno vissuto.

10. Cambiamenti di umore e di personalità

L'umore e la personalità delle persone che soffrono del morbo di Alzheimer possono cambiare. Essi possono diventare confusi, sospettosi, depressi, spaventati o ansiosi. Possono essere facilmente suscettibili a casa, al lavoro, con gli amici o nei luoghi nei quali sono al di fuori della loro zona di comfort.

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Edited by Aura Assistenza - 24/3/2016, 09:31
 
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view post Posted on 25/3/2016, 10:42




Aura Assistenza Anziani Malati Bologna dichiara che tutti gli interventi in questo blog sono a scopo puramente informativo.
Si invita sempre a far riferimento ad un medico specializzato.

Le Fasi dell' Alzheimer

Pre-demenza
I primi sintomi sono spesso erroneamente attribuiti all'invecchiamento o stress. I test neuropsicologici dettagliati possono rivelare difficoltà cognitive lievi fino a otto anni prima che una persona soddisfi i criteri clinici per la diagnosi di AD. I primi sintomi possono influenzare molte attività di vita quotidiana. Uno dei sintomi più evidenti è la difficoltà a ricordare i fatti appresi di recente e l'incapacità di acquisire nuove informazioni.

Piccoli problemi d' attenzione, di pianificare azioni, di pensiero astratto, o problemi con la memoria semantica (memoria che collega la parola al suo significato) possono essere sintomatici delle prime fasi dell'Alzheimer. L'apatia ,che si osserva in questa fase, è il sintomo neuropsichiatrico più persistente che permane per tutto il decorso della malattia. I sintomi depressivi, irritabilità e la scarsa consapevolezza delle difficoltà di memoria sono molto comuni. La fase preclinica della malattia è stata chiamata "mild cognitive impairment" (MCI). Quest ultima si trova spesso ad essere una fase di transizione tra l'invecchiamento normale e la demenza. MCI può presentarsi con una varietà di sintomi, e quando la perdita di memoria è il sintomo predominante è chiamato "MCI amnesico" ed è spesso visto come una fase prodromica della malattia di Alzheimer.

Fase iniziale
Nelle persone con AD la crescente compromissione di apprendimento e di memoria alla fine porta ad una diagnosi definitiva. In una piccola percentuale, difficoltà nel linguaggio, nell'eseguire azioni, nella percezione (agnosia), o nell'esecuzione di movimenti complessi (aprassia) sono più evidenti dei problemi di memoria. L'AD non colpisce allo stesso modo tutti i tipi di memoria. Vecchi ricordi della vita personale (memoria episodica), le nozioni apprese (memoria semantica), e la memoria implicita (la memoria del corpo su come fare le cose, come l'utilizzo di una forchetta per mangiare) sono colpiti in misura minore rispetto a nozioni imparate di recente.

I problemi linguistici sono caratterizzati principalmente da un impoverimento nel vocabolario e una diminuzione nella scioltezza, che portano ad un depauperamento generale del linguaggio orale e scritto. In questa fase, la persona con il morbo di Alzheimer è di solito in grado di comunicare adeguatamente idee di base. Può essere presente una certa difficoltà d'esecuzione in attività come la scrittura, il disegno o vestirsi, coordinazione dei movimenti e difficoltà di pianificare movimenti complessi (aprassia) può essere presente, ma sono comunemente inosservati. Con il progredire della malattia, le persone con AD spesso possono continuare a svolgere molti compiti in modo indipendente, ma potrebbero avere bisogno di assistenza o di controllo per le attività più impegnative cognitivamente.

Fase intermedia
Il progredire dell'AD ostacola l'indipendenza nei soggetti i quali lentamente non sono più in grado di svolgere le attività quotidiane. Le difficoltà linguistiche diventano evidenti per via dell' afasia, che porta frequentemente a sostituire parole con altre errate nel contesto (parafasie). La lettura e la scrittura vengono lentamente abbandonate. Le sequenze motorie complesse diventano meno coordinate con il passare del tempo:aumenta il rischio di cadute. In questa fase, i problemi di memoria peggiorano, e la persona può non riconoscere i parenti stretti. La memoria a lungo termine, che in precedenza era intatta, diventa compromessa. I cambiamenti comportamentali e neuropsichiatrici diventano più evidenti. Si può passare rapidamente dall' irritabilità al pianto; non sono rari impeti di rabbia o resistenza al "caregiving". I soggetti perdono anche la consapevolezza della propria malattia e i limiti che essa comporta (anosognosia). Si può sviluppare incontinenza urinaria.

Fase finale
Durante le fasi finali, il paziente è completamente dipendente dal "caregiver". Il linguaggio è ridotto a semplici frasi o parole, anche singole, portando infine alla completa perdita della parola. Nonostante la perdita delle abilità linguistiche verbali, alcune persone spesso possono ancora comprendere e restituire segnali emotivi. Anche se l'aggressività può ancora essere presente, l' apatia e la stanchezza sono i sintomi più comuni. Le persone con malattia di Alzheimer alla fine non sarà in grado di eseguire anche i compiti più semplici in modo indipendente; la massa muscolare e la mobilità si deteriorano al punto in cui sono costretti a letto e incapaci di nutrirsi. La causa della morte è di solito un fattore esterno, come un'infezione o una polmonite.

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view post Posted on 29/3/2016, 08:16




Alzheimer: cenni storici [da wikipedia]

Nel 1901, il dottor Alois Alzheimer, uno psichiatra tedesco, interrogò una sua paziente, la signora Auguste D., di 51 anni. Le mostrò parecchi oggetti e successivamente le domandò che cosa le era stato indicato. Lei non poteva però ricordare. Inizialmente registrò il suo comportamento come "disordine da amnesia di scrittura", ma la signora Auguste D. fu la prima paziente a cui venne diagnosticata quella che in seguito sarebbe stata conosciuta come malattia di Alzheimer.

Alois Alzheimer affidò successivamente all'italiano Gaetano Perusini, un giovane e brillante neurologo udinese, il compito di raccogliere informazioni e dati su casi analoghi. Perusini descrisse altri casi, approfondendone gli aspetti clinico-patologici corredandoli di abili disegni a mano.

Tali osservazioni e disegni vennero pubblicati da Alzheimer su un lavoro comparso nel 1910 sulla rivista Histologische und histopathologische Arbeiten über die Grosshirnrinde, ma senza il nome di Perusini.

Negli anni successivi vennero registrati in letteratura scientifica undici altri casi simili; nel 1910 la patologia venne inserita per la prima volta dal grande psichiatra tedesco Emil Kraepelin nel suo classico Manuale di Psichiatria, venendo da lui definita come "Malattia di Alzheimer", o "Demenza Presenile". Il termine, inizialmente utilizzato solo per le rare forme "early-onset" (ovvero, con esordio clinico prima dei 65 anni), dopo il 1977 è stato ufficialmente esteso a tutte le forme di Alzheimer.


foto di Auguste D.


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view post Posted on 31/3/2016, 08:18




Alzhemier: terapie

Anche se al momento non esiste una cura efficace, sono state proposte diverse strategie terapeutiche per tentare di influenzare clinicamente il decorso della malattia di Alzheimer; tali strategie puntano a modulare farmacologicamente alcuni dei meccanismi patologici che ne stanno alla base. È inoltre opportuno integrare interventi psicosociali, cognitivi e comportamentali, che hanno dimostrato effetti positivi, sinergicamente all'uso dei presidi farmacologici, nel rallentamento dell'evoluzione dei sintomi e nella qualità della vita dei pazienti e dei caregiver[85].

Intervento farmacologico
In primo luogo, basandosi sul fatto che nell'Alzheimer si ha diminuzione dei livelli di acetilcolina, un'ipotesi terapeutica è stata quella di provare a ripristinarne i livelli fisiologici. L'acetilcolina pura non può però essere usata, in quanto troppo instabile e con un effetto limitato. Gli agonisti colinergici invece avrebbero effetti sistemici e produrrebbero troppi effetti collaterali, e non sono quindi utilizzabili. Si possono invece usare gli inibitori della colinesterasi, l'enzima che catabolizza l'acetilcolina: inibendo tale enzima, si aumenta la quantità di acetilcolina presente nello spazio intersinaptico.

Sono a disposizione farmaci inibitori reversibili dell'acetilcolinesterasi, che hanno una bassa affinità per l'enzima presente in periferia, e che sono sufficientemente lipofili da superare la barriera emato-encefalica (BEE), e agire quindi di preferenza sul sistema nervoso centrale. Tra questi, la tacrina, il donepezil, la fisostigmina, la galantamina e la neostigmina sono stati i capostipiti, ma l'interesse farmacologico è attualmente maggiormente concentrato su rivastigmina e galantamina, il primo perché privo di importanti interazioni farmacologiche, il secondo poiché molto biodisponibile e con emivita di sole sette ore, tale da non causare facilmente effetti collaterali.

Un'altra e più recente linea d'azione prevede il ricorso a farmaci che agiscano direttamente sul sistema glutamatergico, come la memantina. La memantina ha dimostrato un'attività terapeutica, moderata ma positiva, nella parziale riduzione del deterioramento cognitivo in pazienti con Alzheimer da moderato a grave.

La tacrina non è più utilizzata perché epatotossica, mentre il donepezil, inibitore non competitivo dell'acetilcolinesterasi, sembrerebbe più efficace perché, con una emivita di circa 70 ore, permette una sola somministrazione al giorno (al contrario della galantamina, che ha una emivita di sole 7 ore). Ovviamente, però, il donepezil è più soggetto a manifestare effetti collaterali dovuti a un aumento del tono colinergico (come insonnia, aritmie, bradicardia, nausea, diarrea). Di contro, la galantamina e la rivastigmina possono causare gli stessi effetti, ma in misura molto minore.

Altre ipotesi di approccio farmacoterapico
Oltre alle molecole e strategie di intervento già delineate, sono state variamente proposte altre ipotesi di intervento farmacologico, con evidenze cliniche di efficacia però insufficienti o non confermate.

Tra esse, un'altra ipotesi complementare di approccio alla patologia è legata alla proposta d'uso di FANS (anti-infiammatori non steroidei). Come detto, nell'Alzheimer è presente una dinamica infiammatoria che danneggia i neuroni. L'uso di antinfiammatori è stato quindi ipotizzato che potrebbe migliorare la condizione clinica dei pazienti. Si è anche notato che le donne in cura post-menopausale con farmaci estrogeni presentano una minor incidenza della patologia (infatti gli estrogeni bloccano la morte neuronale indotta dalla proteina beta-amiloide)[88] Alcuni ricercatori avrebbero messo in evidenza anche la potenziale azione protettiva della vitamina E (alfa-tocoferolo), che sembrerebbe prevenire la perossidazione lipidica delle membrane neuronali causata dal processo infiammatorio; ma ricerche più recenti non hanno confermato l'utilità della vitamina E (né della vitamina C) nella prevenzione primaria e secondaria della patologia[89], sottolineando anzi i potenziali rischi sanitari legati all'eccessiva e prolungata assunzione di vitamina E.

Sul processo neurodegenerativo può intervenire anche l'eccitotossicità, ossia un'eccessiva liberazione di acidi glutammico e aspartico, entrambi neurotrasmettitori eccitatori, che inducono un aumento del calcio libero intracellulare, il quale è citotossico. Si è quindi ipotizzato di usare farmaci antagonisti del glutammato e dell'aspartato (come, ad esempio, inibitori dei recettori NMDA), ma anche questi ultimi presentano notevoli effetti collaterali.

Sono presenti in commercio farmaci definiti Nootropi ("stimolanti del pensiero"), come il Piracetam e l'Aniracetam: questi farmaci aumentano il rilascio di Acido glutammico; anche se questo parrebbe in netta contrapposizione a quanto detto sopra, si deve tenere presente che comunque tale neurotrasmettitore è direttamente implicato nei processi di memorizzazione e di apprendimento. Aumentandone la quantità, è stato ipotizzato di poter contribuire a migliorare i processi cognitivi. Anche in questo caso, l'evidenza clinica di efficacia è scarsa.

Ultimo approccio ipotizzato è l'uso di Pentossifillina e Diidroergotossina (sembra che tali farmaci migliorino il flusso ematico cerebrale, permettendo così una migliore ossigenazione cerebrale, e un conseguente miglioramento delle performance neuronali). Sempre per lo stesso scopo è stato proposto l'uso del Gingko biloba, ma l'evidenza scientifica a supporto di questa tesi è negativa[90].

Intervento psicosociale e cognitivo
Una stanza speciale progettata per la terapia di riabilitazione sensoriale.
Le forme di trattamento non-farmacologico consistono prevalentemente in interventi comportamentali, di supporto psicosociale e di training cognitivo. Tali misure sono solitamente integrate in maniera complementare con il trattamento farmacologico, e hanno dimostrato una loro efficacia positiva nella gestione clinica complessiva del paziente.

I training cognitivi (di diverse tipologie, e con diversi obbiettivi funzionali: Reality-Orientation Therapy, Validation Therapy, Reminescence Therapy, i vari programmi di stimolazione cognitiva - Cognitive Stimulation Therapy, ecc.), hanno dimostrato risultati positivi sia nella stimolazione e rinforzo delle capacità neurocognitive, sia nel miglioramento dell'esecuzione dei compiti di vita quotidiana[94][95]. I diversi tipi di intervento si possono rivolgere prevalentemente alla sfera cognitiva (ad es., Cognitive Stimulation Therapy), comportamentale (Gentlecare, programmi di attività motoria), sociale ed emotivo-motivazionale (ad es., Reminescence Therapy, Validation Therapy, etc.).

La Reality-Orientation Therapy, focalizzata su attività formali e informali di orientamento spaziale, temporale e sull'identità personale, ha dimostrato in diversi studi clinici di poter facilitare la riduzione del disorientamento soggettivo, e contribuire a rallentare il declino cognitivo, soprattutto se effettuata con regolarità nelle fasi iniziali e intermedie della patologia.

I vari programmi di stimolazione cognitiva (Cognitive Stimulation), sia eseguiti a livello individuale (eseguibili anche presso il domicilio dai caregiver, opportunamente formati), sia in sessioni di gruppo, possono rivestire una significativa utilità nel rallentamento dei sintomi cognitivi della malattia, e, a livello di economia sanitaria, presentano un ottimo rapporto tra costi e benefici. La stimolazione cognitiva, oltre a rinforzare direttamente le competenze cognitive di tipo mnestico, attentivo e di pianificazione, facilita anche lo sviluppo di "strategie di compensazione" per i processi cognitivi lesi, e sostiene indirettamente la "riserva cognitiva" dell'individuo.

La Reminescence Therapy (fondata sul recupero e la socializzazione di ricordi di vita personale positivi, con l'assistenza di personale qualificato e materiali audiovisivi), ha dimostrato risultati interessanti sul miglioramento dell'umore, dell'autostima e delle competenze cognitive, anche se ulteriori ricerche sono ritenute necessarie per una sua completa validazione.

Forme specifiche di musicoterapia e arteterapia, attuate da personale qualificato, possono essere utilizzate per sostenere il tono dell'umore e forme di socializzazione nelle fasi intermedio-avanzate della patologia, basandosi su canali di comunicazione non verbali.

Positivo sembra essere anche l'effetto di una moderata attività fisica e motoria, soprattutto nelle fasi intermedie della malattia, sul tono dell'umore, sul benessere fisico e sulla regolarizzazione dei disturbi comportamentali, del sonno e alimentari.

Fondamentale è inoltre la preparazione e il supporto, informativo e psicologico, rivolto ai "caregiver" (parenti e personale assistenziale) del paziente, che sono sottoposti a stress fisici ed emotivi significativi, in particolare con l'evoluzione della malattia.

Una chiara informazione ai famigliari, una buona alleanza di lavoro con il personale sanitario, e la partecipazione a forme di supporto psicologico diretto (spesso tramite specifici gruppi di auto-mutuo-aiuto tra pari), oltre all'eventuale coinvolgimento in associazioni di famigliari, rappresentano essenziali forme di sostegno per l'attività di cura.

Sempre nello stesso senso appare di particolare utilità, solitamente a partire dalle fasi intermedie della patologia, l'inserimento del paziente per alcune ore al giorno nei Centri Diurni, presenti in molte città (attività che può portare benefici sia per la stimolazione cognitiva e sociale diretta del paziente, sia per il supporto sociale indiretto ai caregiver).

La cura dell'Alzheimer è però ai primi passi: al momento non esistono ancora farmaci o interventi psicosociali che guariscano o blocchino la malattia. Si può migliorare la qualità della vita dei pazienti malati, e provare a rallentarne il decorso nelle fasi iniziali e intermedie.

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view post Posted on 4/4/2016, 08:05




Alzheimer: scoperta della possibile causa

Dagli Stati Uniti arriva la notizia della scoperta della possibile causa principale dell'Alzheimer. I test, per ora solo su cavie da laboratorio, potrebbero contribuire allo sviluppo di una nuova cura, aprendo così speranze per i pazienti. Nelle sperimentazioni si è visto che un tipo di cellule del sistema immunitario del cervello, le microglia, quando iniziano a consumare dosi abnormi di un nutriente, un aminoacido che si chiama arginina, iniziano a dividersi e cambiare. In quel momento incomincia ad apparire l'Alzheimer.

Lo studio. I ricercatori statunitensi della Duke University hanno scoperto che bloccando questo processo con la somministrazione nei topi di un noto 'inibitore enzimatico', una molecola in grado di diminuire l'attività di un enzima), la 'difluorometilornitina' (Dfmo), si riduce il consumo di arginina, da parte delle microglia e si riduce sia il numero di queste cellule che delle cosiddette 'placche amiloidi'. Sono queste ultime, insieme al malfunzionamento delle proteine Tau, che, depositandosi tra i neuroni, ne alterano, rallentandolo, il funzionamento causando la demenza tipica dell'Alzheimer.

I test sui topi. Per la sperimentazione i ricercatori hanno utilizzato topi da laboratorio modificati geneticamente diversi anni fa in modo tale che il loro sistema immunitario potesse essere simile a quello umano. "Se sarà accertato anche negli uomini che il consumo di arginina gioca un ruolo così importante nel processo degenerativo, forse potremmo bloccarlo ed invertire il corso della malattia", ha spiegato Carol Colton, professore di Neurologia alla Duke University School of Medicine, uno degli autori dello studio pubblicato sul Journal of Neuroscience. Secondo Colton lo studio "apre le porte ad un modo completamente diverso di pensare l'Alzheimer, in grado di farci superare il punto morto in cui ci trovavamo nella lotta contro" la malattia.

Le cure. La 'difluorometilornitina' (Dfmo), la sostanza che è stata utilizzata per bloccare l'effetto dell'arginina, è già utilizzata in una serie di sperimentazioni contro alcuni tipi di tumore e potrebbe diventare un'arma per trovare una cura contro l'Alzheimer. Oggi non esistono farmaci in grado di fermare e far regredire l'Alzheimer e i trattamenti disponibili puntano semplicemente a contenere i sintomi. Per alcuni pazienti, in cui la malattia è in uno stadio lieve, farmaci come tacrina, donepezil, rivastigmina e galantamina possono aiutare a limitare l’aggravarsi dei sintomi per alcuni mesi. In genere questa malattia incomincia in modo subdolo e non è facile da identificare. La persona incomincia a dimenticare alcune cose, per arrivare al punto in cui non riescono più a riconoscere nemmeno i familiari e hanno bisogno di aiuto anche per le attività quotidiane più semplici.

Mezzo milione di malati in Italia. La demenza di Alzheimer oggi colpisce circa il 5% delle persone con più di 60 anni e in Italia le stime ufficiali parlano di circa 500mila ammalati. È la forma più comune di demenza senile, uno stato provocato da una alterazione delle funzioni cerebrali che implica serie difficoltà per il paziente nel condurre le normali attività quotidiane. Entro il 2050 il numero di persone che nel mondo soffriranno di demenza salirà a circa 135 milioni di persone.

[da www.repubblica.it/salute/ricerca/20...cura-111993939/]

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view post Posted on 6/4/2016, 08:08




Alzheimer: come comportarsi con il malato

1. Riprogrammare la vita:
le persone affette da demenza necessitano di aiuto e assistenza da parte di chi si prende cura di loro in modo progressivamente più intenso, a causa dell'evoluzione della malattia. I famigliari di queste persone devono quindi pianificare le modalità assistenziali più adeguate secondo le diverse fasi della malattia, senza dimenticare che c'è sempre la possibilità e il dovere di permettere, anche al malato più grave, il mantenimento di una vita dignitosa. Un sentimento diffuso nei famigliari è spesso un forte senso di impotenza e una difficoltà a riorganizzare i propri impegni in base alle necessità spesso gravose del proprio assistito. È necessario quindi mantenere un rapporto continuativo con il medico di fiducia o la struttura clinica d'appoggio, in modo da potersi confrontare con personale esperto e qualificato sulle decisioni da prendersi rispetto alla gestione dei problemi essistenziali. Non solo, questo collegamento è importante anche per ottenere appoggio e un conforto nei momenti di frustrazione cosi da mantenere una prospettiva costruttiva nell'affrontare le difficoltà quotidiane, che si può ottenere solo vincendo il senso di impotenza, il disfattismo e la tentazione di rifugiarsi in false speranze e facendo appello alle proprie energie umane e morali.
"Depressione, apatia e insicurezza"

2. Parlare al malato.
Dalla parola alla carezza: è necessario che il famigliare si renda conto che il proprio caro affetto da demenza non è più in grado di recepire e decodificare correttamente quanto gli viene detto. E' importante dunque adattare continuamente, con elasticità e sensibilità, le proprie modalità comunicative in rapporto alle capacità di comprensione del malato. Si deve soprattutto tener presente che per il malato è molto frustrante e addirittura controproducente pretendere da lui prestazioni che non è più in grado di dare. Sottolineare ciò che la persona era in grado di fare ma che ora non riesce più a portare a termine, oppure imputare il fallimento a mancanza di volontà o di impegno provoca inutile sofferenza e acuisce la depressione e il disorientamento.

3. L’ereditarietà:
uno dei quesiti più ricorrenti nei famigliari delle persone affette da demenza è se ci sia il rischio di contrarre la malattia anche per loro o se ci siano esami genetici atti a evidenziare questo rischio. Oggi sappiamo che le forme di Alzheimer ereditario rappresentano meno dell'1%. Del rimanente 99%, solo il 25% è imputabile a una predisposizione famigliare, peraltro non completamente identificata, ma verosimilmente analoga a quella che può esserci per altre patologie, quali l'ipertensione arteriosa e il diabete. Esiste cioè una maggior vulnerabilità famigliare allo sviluppo di queste patologie. Per quanto riguarda gli esami effettuabili per l'Alzheimer veramente ereditario (1% circa, ricordiamo) sono state identificate alterazioni specifiche su tre geni. Queste forme ereditarie di Alzheimer di solito esordiscono in giovane età (40-50 anni) ed hanno una chiara distribuzione famigliare (tre o più membri consanguinei della famiglia sono colpiti). In questi casi specifici trova giustificazione l'approfondimento.

4. Come affrontare i disturbi comportamentali:
è possibile che la persona affetta da demenza, a fianco della progressiva perdita di autonomia e delle proprie facoltà mentali superiori, mostri dei disturbi comportamentali quali ansia, agitazione, aggressività e, in alcuni casi, specialmente in alcune forme di demenza quali la demenza frontotemporale o la demenza a corpi di Lewy, disinibizione o manifestazioni di tipo psicotico come deliri, allucinazioni o comportamenti auto od eterolesionisti. Le persone che si prendono cura dei pazienti dementi devono quindi fare i conti anche con la possibile gestione di queste manifestazioni, spesso molto difficili da affrontare. E' importante innanzitutto sottolineare che ogni iniziativa farmacologica deve essere sempre presa sotto stretto controllo del proprio specialista di fiducia, che sarà in grado di consigliare la miglior terapia per i disturbi specifici del paziente e dare gli opportuni suggerimenti per affrontare i problemi di gestione. Infatti, anche se oggi esistono validi preparati farmacologici che possono controllare i disturbi più gravi, ad essi vanno sempre affiancati i comportamenti adeguati da parte dei famigliari. Esistono alcune regole comportamentali che è bene conoscere e che possono aiutare nell'affrontare i disturbi comportamentali.

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view post Posted on 11/4/2016, 09:54




Alzheimer: prevenzione

Al momento non ci sono prove definitive per sostenere l'efficacia di una qualsiasi misura preventiva per la malattia di Alzheimer. Studi per identificarle hanno spesso prodotto risultati incoerenti. Tuttavia, studi epidemiologici hanno proposto correlazioni tra alcuni fattori modificabili (come la dieta, il rischio cardiovascolare, l'utilizzo di prodotti farmaceutici o lo svolgimento di attività intellettuali) e la probabilità per una popolazione di sviluppare la malattia. Solo ulteriori ricerche, tra cui gli studi clinici, riveleranno se questi fattori possono aiutare a prevenire o ritardare l'insorgenza della malattia di Alzheimer.

Quadro clinico e dieta

Sebbene i fattori di rischio cardiovascolari, come l'ipercolesterolemia, l'ipertensione, il diabete e il fumo, siano associati con un rischio maggiore di insorgenza della malattia, le statine, che sono farmaci per l'abbassamento del colesterolo, non si sono dimostrate efficaci nel prevenire o migliorare il decorso. I componenti di una dieta mediterranea, che comprendono frutta e verdura, pane, grano e altri cereali, olio d'oliva, pesce e vino rosso, possono singolarmente o tutti insieme ridurre il rischio e ritardare il decorso della malattia di Alzheimer. I loro benefici effetti cardiovascolari sono stati proposti come meccanismo di azione. Esistono prove limitate che un consumo, da lieve a moderato, di alcool, soprattutto vino rosso, sia associato a un minor rischio di Alzheimer.

Ipotesi sull'uso di vitamine non hanno trovato prove sufficienti di efficacia per raccomandare la vitamina C, E o acido folico, con o senza vitamina B12, come agenti di prevenzione o per il trattamento dell'Alzheimer. Inoltre, la vitamina E, è associata a rischi per la salute. Studi compiuti esaminando la somministrazione di acido folico (B9) e di altre vitamine B non hanno mostrato alcuna correlazione significativa con il declino cognitivo.

L'utilizzo a lungo termine di farmaci anti-infiammatori non steroidei (FANS) è associato a una ridotta probabilità di sviluppare Alzheimer. Studi post-mortem umani, studi su modelli animali, o in studi in vitro, supportano l'ipotesi che i FANS possano ridurre l'infiammazione correlata alle placche amiloidi. Tuttavia, studi riguardanti il loro uso come trattamento palliativo non sono riusciti a dimostrare risultati positivi, mentre nessun processo di prevenzione è stato realizzato. La curcumina del curry ha mostrato una certa efficacia nel prevenire i danni cerebrali, nei modelli di topo, in virtù delle sue proprietà anti-infiammatorie. La terapia ormonale sostitutiva, anche se utilizzata in passato, non è più ritenuta efficace per prevenire la demenza e in alcuni casi può anche esserne ritenuta responsabile.

Stile di vita
Esistono studi che mostrano correlazioni tra determinati stili di vita e l'incidenza del rischio di contrarre la patologia o con la sua progressione.

Le persone che si impegnano in attività intellettuali, come la lettura, i giochi da tavolo, i cruciverba, l'esecuzione con strumenti musicali, o che hanno una regolare interazione sociale, mostrano una riduzione del rischio di sviluppo della malattia di Alzheimer. Questo è compatibile con la teoria della riserva cognitiva, in cui si afferma che alcune esperienze di vita forniscono all'individuo una riserva cognitiva che ritarda l'insorgenza di manifestazioni di demenza. L'apprendimento di una seconda lingua, anche in tarda età, sembra ritardare la malattia di Alzheimer. La pratica di attività fisica è anch'essa un comportamento associato a un ridotto rischio di Alzheimer.

Alcuni studi hanno mostrato un aumentato rischio di sviluppare la malattia nel caso di assunzione di metalli, e, in particolare, alluminio, o in caso di esposizione a particolari solventi. La qualità di alcuni di questi studi è stata però criticata, e altri studi hanno concluso che non vi è alcuna relazione tra questi fattori ambientali e lo sviluppo di Alzheimer.

Mentre alcuni studi suggeriscono che l'esposizione a campi elettromagnetici a bassa frequenza può aumentare il rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer, i revisori hanno rilevato che sono necessari ulteriori indagini epidemiologiche e di laboratorio per poter avvalorare tale ipotesi. Il fumo è un importante fattore di rischio per l'Alzheimer.

Alcuni studi compiuti presso il National Institute on Ageing di Baltimora ipotizzano che il digiuno a intervalli regolari (1 o 2 giorni a settimana) potrebbe avere un ruolo palliativo alle forme più gravi della malattia.

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view post Posted on 15/4/2016, 08:30




Rivoluzione nella prevenzione dell’Alzheimer grazie alla scoperta di alcuni ricercatori del Politecnico federale di Losanna



Gli scienziati hanno realizzato una capsula che elimina dal cervello le molecole nocive: una volta impiantata sottocute rilascia gradualmente anticorpi che circolano nel sangue e svolgendo la loro azione di pulizia nel cervello. In questo modo è possibile distruggere gli accumuli di molecole tossiche a cui si attribuisce la causa dell’Alzheimer, i cosiddetti frammenti di beta-amiloidi.

La capsula, messa a punto da Patrick Aebischer, è costituita di materiale biocompatibile e ha dimensioni millimetriche. Inoltre contiene cellule modificate geneticamente, destinate a rilasciare un flusso continuo di anticorpi anti-proteina beta-amiloide destinate al cervello. Di recente un gruppo di ricercatori italiani ha scoperto come combattere l’Alzheimer trasportando insulina al cervello attraverso un “nanogel” di particelle nebulizzate.

I ricordi non vanno persi

Questa scoperta arriva a pochi giorni di distanza dalla ricerca del Riken-Mit Center for Neural Circuit Genetics di Cambridge che ha dimostrato la possibilità di recuperare i ricordi perduti in chi ha contratto l’Alzheimer. I ricercatori hanno infatti riacceso la memoria nei topi stimolando il cervello con un raggio di luce, grazie alla tecnica dell’optogenetica ancora mai sperimentata sull’uomo. Si è compreso grazie a questo studio che la perdita di memoria causata dalla malattia non è dovuta ad un’incapacità di codificare informazioni e immagazzinarle ma a due problema nel loro recupero.

La portata della scoperta è notevole, in quanto apre a nuove possibilità terapeutiche per l’Alzheimer. I ricordi vengono riaccesi nel cervello grazie alle spine dendritiche, che connettono fra loro i neuroni e che si aprono come germogli ogni volta che uno stimolo esterno rievoca un ricordo. Nei malati di Alzheimer, di cui è stata scoperta la causa e anche individuato il meccanismo di formazione.,con il passare del tempo le spine dendritiche diminuiscono, sbiadendo i ricordi. Lo studio dimostra che è possibile stimolarne nuovamente la crescita, recuperando così anche la memoria.

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view post Posted on 18/4/2016, 10:38






L'Alzaheimer può essere contrastato anche senza l'uso di farmaci. Lo dimostra uno studio, finanziato con 4 milioni di euro dalla Fondazione Pisa, condotto dall'istituto di neuroscienze del Cnr di Pisa. 'Train the brain' ha sperimentato una nuova terapia, l'arricchimento ambientale fisico e mentale. "Il cervello dell'anziano sano - ha sottolineato il responsabile scientifico del progetto e presidente del'Accademia dei Lincei, Lamberto Maffei - e perfino quello nelle fasi iniziali di malattia, mantiene una sua plasticità con una qualche capacità di recupero e riadattamento. Questo rimodellamento favorevole può essere facilitato da un esercizio fisico regolare, rapporti sociali armonici, un'alimentazione mirata e tenendo la mente attiva. I risultati, nel tempo, hanno dimostrato miglioramenti nei pazienti coinvolti nel percorso dei trattamenti fisici e neurologici. Gli stimoli esterni rappresentano strumenti indispensabili nel processo di rallentamento della demenza". La nanomedicina è invece protagonista del progetto che può regalare nuove speranze ai circa 40 milioni di persone nel mondo che soffrono di diabete mellito di tipo 1, di cui 50-100 mila in Italia. E' il risultato di uno studio dell'Università di Pisa e dell'Azienda ospedaliero universitaria pisana, coordinato dall'endocrinologo Piero Marchetti e finanziato con 900 mila euro dalla Fondazione Pisa. "I risultati raggiunti - spiega Marchetti - dimostrano che è possibile rivestire le cellule che producono insulina e trapiantarle senza la necessità di utilizzare farmaci antirigetto, creando 'isole' pancreatiche sane. I risultati già soddisfacenti nei test animali dovranno essere confermati negli ambiti pre-clinici adeguati". Infine, può avere applicazioni mediche anche Poloptel, progetto costato 860 mila euro e realizzato dall'ateneo pisano, durante il quale sono stati sviluppati nuovi materiali con funzionalità elettriche e ottiche via nano e microdispersione adesiva per la produzione di materiali e dispositivi di vario genere: dalla tastiera per ipovedenti alle lenti bioispirate, ovvero un dispositivo ottico ispirato all'architettura del cristallino e del muscolo ciliare dell'occhio umano.

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view post Posted on 20/6/2016, 14:39




Più di mezzo milione di italiani affetti dalla malattia di Alzheimer, un dato destinato a raddoppiare nei prossimi 20 anni con effetti preoccupanti, se si pensa che ad oggi l’assistenza costa 11 miliardi di euro l’anno, in buona parte a carico delle famiglie dei malati.

Questo lo scenario illustrato durante il corso di formazione professionale “Malattia di Alzheimer, cronaca di un’epidemia sociale”, che si è svolto recentemente a Roma.

Una giornata di approfondimento nel corso della quale, tra gli altri, sono intervenuti il presidente di Aifa (agenzia italiana del farmaco), Mario Melazzini, il direttore dell’istituto di neurologia del Gemelli, Paolo Maria Rossini, e il presidente di Aima (associazione italiana Malattia di Alzheimer), Patrizia Spadin.

Di quanto emerso nell’ambito del corso in questione ci si occupa in un articolo pubblicato su superabile.it.

E’ stato, tra l’altro, rilevato che in un Paese come l’Italia, dove “il 22% della popolazione è ultrassessantenne (la malattia colpisce soprattutto dopo i 65 anni) è evidente l’esigenza di cercare nuovi modelli assistenziali”.

L’esigenza di individuare nuovi modelli assistenziali risulta evidente considerando che una recente ricerca svolta da Censis e Aima, rivela che il costo medio annuo per paziente è “pari a 70.587 euro e comprende i costi a carico del servizio sanitario nazionale, quelli sostenuti direttamente sulle famiglie, i costi indiretti come gli oneri di assistenza, i mancati redditi da lavoro dei pazienti.

Di questi ultimi, il 56,6% è seguito da una struttura pubblica, mentre il 38% delle famiglie deve ricorrere a una badante e il resto ai cosiddetti ‘caregiver’, membri della famiglia che si occupano dei malati. Il 40% dei caregiver, pur essendo in età lavorativa è inoltre senza impiego”.

Ha spiegato il presidente dell’associazione italiana Malattia di Alzheimer:

“Abbiamo raccolto i dati per fotografare la situazione italiana: negli ultimi 16-20 anni, per certi versi, la situazione è migliorata, per cui i servizi sanitari sono più puntuali e precisi. Ma i pazienti non trovano ancora sul territorio i servizi che sono necessari a mantenere un equilibrio durante tutto il percorso di malattia. In Italia ci sono 21 sistemi diversi, uno per ogni regione, e quelli virtuosi sono pochi. Sono le regioni del Nord, mentre al Sud c’è il deserto.



Considerato il fatto che i pazienti sono disorientati e hanno bisogno di punti di riferimento precisi, è chiaro che pensare a un pellegrinaggio verso altre regioni è un handicap. L’uniformità di trattamento più che un ambizione è un diritto del paziente”.

Parallelo a quello dell’assistenza, c’è il discorso sulla ricerca, che potrebbe avere un ruolo cruciale poichè “la scoperta di un farmaco – hanno spiegato ancora gli esperti – capace di ritardare di soli 5 anni lo stato di perdita dell’autosufficienza del paziente, avrebbe un impatto significativo sui costi sociali e sanitari.

Ma nonostante siano in corso molte sperimentazioni e siano stati fatti significativi passi avanti nella ricerca farmacologica, ancora non si ha una cura in grado di modificare la storia naturale della malattia, arrestando o rallentando il processo degenerativo”.

Gli sviluppi più recenti, ha quindi commentato Paolo Maria Rossini, direttore dell’istituto di neurologia del policlinico Gemelli di Roma, riguardano quello che viene ritenuto “il ‘killer’ principale e causa della malattia, una sostanza definita beta-amiloide, che si accumula in placche all’interno dei nostri malati e provoca una cascata di meccanismi che danno, alla fine, la morte dei neuroni”.

Per quanto riguarda l’assistenza, emergono ancora una volta le profonde diversità di trattamento che si verificano all’interno del territorio nazionale. Non è certo una novità, purtroppo.

La stessa situazione si verifica per molte altre malattie. Ma è necessario, comunque, ribadire ancora una volta che tale situazione va modificata, radicalmente.

Infatti non si può non convenire con l’affermazione del presidente dell’Aima, secondo la quale “L’uniformità di trattamento più che un ambizione è un diritto del paziente”.

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view post Posted on 23/6/2016, 07:52




Ecco alcuni libri relativi all'Alzheimer

Vademecum Alzheimer

di Autori Vari (a cura di Patrizia Spadin) - Editore AIMA
pagg. 320

Da abbigliamento a wandering, passando per APO E, bioetica, coccole, disfagia, ereditarietà, farmaci, infarto, nutrizione artificiale, perdersi, scale di valutazione, televisione e TAC, (per 231 voci nell'indice), il Vademecum Alzheimer è un manuale in forma di glossario che vuole accompagnare chi assiste un familiare malato, per tutto il percorso di malattia, con informazioni e consigli pratici. Scritto da esperti e arricchito da un'appendice sugli aspetti socioeconomici a cura del Censis.

Più o meno qui, vicino al cuore
di Rosangela Percoco - Editore AIMA
Pagg. 160

Tutte le storie che Rosangela scrive si aggirano nei paraggi del cuore: quella del vecchio funambolo che si sente più smarrito adesso con i piedi per terra di quando da giovane attraversava il cielo su un filo. Quella del musicista a cui la Storia ha portato via molte pagine dalla memoria, ma non la musica dalle dita. E poi c'è Agata, che non si separa dalla sua scatola di latta da quel famoso dodici gennaio; nonno e nipote esploratori che salvano il lago rosso; la piccola Aurora che chiede a Babbo Natale di aggiustarle il nonno, ed Elena e Guido, che si erano tanto amati, e chissà che cosa cercano adesso uno dall'altra … Tutti lì, vicino al cuore di Rosangela, pronti a traslocare nel cuore di chi saprà accoglierli.

Mi manchi
di Nadine Trintignant, traduzione di Rita Ianniciello,
edito dall’A.I.M.A., pagg. 131.

Una lunga lettera dell’autrice all’amatissimo fratello Christian Marquand (noto attore e regista degli anni Cinquanta e Sessanta), scritta come una sceneggiatura, che contrappone i ricordi di un passato vivace al presente drammatico, la malattia di Alzheimer che colpisce l’attore. E’ un libro affettuoso, delicato, commovente e brillante. Racconta i rapporti tra i due fratelli, l’ambiente artistico spensierato e trasgressivo degli anni Cinquanta, il dramma dell'Alzheimer e le tappe del suo svolgersi.

Mia nonna è diversa dalle altre
di Mercè Arànega, versione italiana a cura di Patrizia Spadin, edito dall’A.I.M.A., pagg. 36.

Volumetto illustrato che si propone di spiegare la realtà del malato di Alzheimer ai bambini tra i sette e i dieci anni, con il linguaggio delle immagini e un testo semplice e comprensibile.

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view post Posted on 6/9/2016, 08:48




Il morbo di Alzheimer in futuro potrebbe fare meno paura: con test ad hoc, magari un prelievo di sangue o un esame delle urine da eseguire già intorno ai 40 anni, si potrà prevedere molto precocemente chi è a rischio di ammalarsi; con terapie preventive – ad esempio anticorpi e vaccini – si potrà bloccare la malattia ben prima dell’esordio dei sintomi.

L’Alzheimer – malattia neurodegenerativa che sgretola memoria e funzioni cognitive - è la forma di demenza più diffusa, colpisce oggi nel mondo 25 milioni di individui, numero che – nella visione più pessimistica - potrebbe quadruplicare entro il 2050.

Diversi studi hanno indicato nell’accumulo di sostanza beta-amiloide nel cervello un meccanismo chiave nello sviluppo della malattia. Ed è ormai chiaro che l’accumulo di amiloide inizia decenni prima dell’esordio dei sintomi, spiega Carlo Ferrarese, direttore di Neuromi (Centro di Neuroscienze di Milano) presso l’Università di Milano Bicocca promotore del meeting “Prevedere e prevenire la demenza: una nuova speranza” (a luglio a Milano). Ecco quindi che molti sforzi sono in corso sia per ideare un test semplice di diagnosi precoce presintomatica, sia per impedire che la malattia faccia il suo corso, bloccando sul nascere il processo neurodegenerativo.

«Oggi - spiega Patrizia Mecocci dell’Università di Perugia – per “diagnosticare” un potenziale rischio di Alzheimer abbiamo a disposizione la tomografia con tracciante specifico per il peptide beta-amiloide, la PET-amiloide che evidenzia accumuli del peptide tossico nel cervello. Ma si tratta di un esame costoso che si riserva a pochi soggetti, eventualmente da coinvolgere in sperimentazioni cliniche». In realtà per arrivare a un test predittivo precoce facile da eseguire e low cost praticabile a tappeto a tutta la popolazione adulta, si tenta di isolare marcatori precoci della malattia in sangue o urine, ovvero molecole specifiche rintracciabili solo in soggetti destinati ad ammalarsi molti anni dopo. L’obiettivo è dunque arrivare a un test che si esegue con un prelievo o un campione di urine.

Parallelamente corre un altro filone di ricerca allo scopo di arrestare la demenza sul nascere o addirittura prima dell’esordio dei sintomi con terapie “preventive” volte a contrastare l’accumulo di peptide beta-amiloide nel cervello. Sono in corso numerosi studi, spiega Mecocci, con anticorpi specifici anti-beta amiloide. I più avanzati sono su volontari colombiani appartenenti a famiglie con una rara forma ereditaria di Alzheimer. Si tratta di individui condannati da difetti genetici ereditari ad ammalarsi. Nel giro di qualche anno, aggiunge Mecocci – potremo capire se questi anticorpi funzionano nel ridurre gli accumuli di beta-amiloide; quando poi questi individui avranno superato i 60 anni capiremo in via definitiva se gli anticorpi impediscono l’Alzheimer.

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view post Posted on 9/9/2016, 09:01




Nuove speranze per combattere l’Alzheimer dalla sperimentazione di un farmaco che ripulisce il cervello dalle placche di amiloide.

I primi risultati dopo l’utilizzo sono promettenti: il nuovo anticorpo è in grado di ridurre nel cervello le placche di amiloide nelle fasi iniziali dell’Alzheimer. Pubblicati sulla rivista Nature dai ricercatori dell’Università di Zurigo, questi risultati potrebbero rappresentare una svolta decisiva nella lotta contro questa malattia neurodegenerativa. Finora si è cercato di arginare l’Alzheimer mettendo in atto scelte di vita preventive, che rallentassero l’incedere della demenza senile e preservassero l’integrità dei neuroni. Un gruppo di ricercatori australiani di recente ha annunciato di poter mettere a punto entro 2-3 anni un vaccino contro la malattia, per la cui prevenzione è stata anche realizzata una capsula in grado di ripulire il cervello.

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Aducanumab è un anticorpo monoclonale al momento testato sugli animali, ha dimostrato di attaccare in modo mirato le placche di beta-amiloide presenti nel cervello, portando alla loro eliminazione senza intaccare la proteina precursore dell’amiloide, che ha un ruolo fondamentale nella crescita delle cellule nervose. L’anticorpo che “insegna” al sistema immunitario a riconoscere le placche ha contribuito al rallentamento del declino cognitivo in tutti i pazienti a cui è stato somministrato durante i test.

Dopo 54 settimane di trattamento la beta-amiloide è risultata significativamente ridotta nel cervello dei pazienti che hanno ricevuto l’anticorpo, e una maggiore riduzione si è constatata in presenza di livelli più elevati del farmaco.

“Valuto questo studio molto importante e incoraggiante e ho l’impressione che, con le dovute cautele, ci stiamo avvicinando a una soluzione concreta per curare l’Alzheimer. È decisamente passo in avanti” – ha commentato Marco Trabucchi, il presidente dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria e Direttore Scientifico del Gruppo di Ricerca Geriatria di Brescia. La novità più rilevante è rappresentata dalla riduzione contestuale anche dei sintomi.

Gli effetti collaterali sono stati reputati non gravi, come l’accumulo di liquido nel cervello in alcuni pazienti che accusato una forte emicrania.

Ora è prevista una sperimentazione su 2700 pazienti affetti da forme lievi o moderate di Alzheimer e, se i risultati confermeranno l’efficacia del farmaco, è prevista una nuova terapia entro il 2020.

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view post Posted on 16/1/2017, 09:04




I ricercatori dell’Imperial College di Londra sono riusciti a prevenire lo sviluppo dell’Alzheimer in alcuni topi grazie alla terapia genica. Come, lo raccontano in uno studio presentato sulle pagine di Pnas.

Tutto è nato da alcune osservazioni che lo stesso team aveva già messo da parte in passato, relative al comportamento e all’azione di un gene, la cui espressione è ridotta nel cervello di chi soffre della malattia. Il gene in questione è PGC1-alfa, ed è in grado di impedire la formazione della proteina neurotossica beta-amiloide, il cui sviluppo dà origine alle placche amiloidi, coinvolte nella morte delle cellule celebrali e tra i tratti più distintivi della malattia di Alzheimer, i cui casi sono destinati a triplicarsi entro il 2050.

Nel nuovo studio, i ricercatori hanno usato un virus per portare il gene di interesse (PGC-1-alfa, coinvolto anche nei processi metabolici dell’organismo, inclusa la regolazione di grassi e zuccheri) all’interno delle cellule del cervello dei topi usati come modello della malattia. La speranza era così di aumentare i livelli della proteina prodotta dal gene. Il virus modificato utilizzato negli esperimenti è un lentivirus, comunemente usato nella terapia genica in altre malattie. Le aree coinvolte erano invece l’ippocampo e la corteccia, e per un motivo particolare. Queste sono infatti le prime regioni a sviluppare le placche amiloidi: danni all’ippocampo colpiscono la memoria a breve termine e hanno ripercussioni sull’orientamento, mentre la corteccia è responsabile della memoria a lungo termine, il ragionamento, il pensiero e l’umore. Gli animali sono stati sottoposti a terapia genica nelle fasi iniziali della malattia di Alzheimer, quando non avevano ancora sviluppato le placche.

Dopo quattro mesi, il team ha osservato che i topi che hanno ricevuto il gene avevano molte meno placche rispetto ai topi non trattati. Inoltre, i topi trattati avevano buone prestazioni nei test di memoria, del tutto uguali quelle dei topi sani. Ma non solo. Cme raccontano i ricercatori, non vi era alcuna perdita di cellule cerebrali nell’ippocampo dei topi che avevano ricevuto la terapia genica, ma una riduzione del numero di cellule della microglia, che nell’Alzheimer possono rilasciare sostanze infiammatorie tossiche, causa di ulteriori danni neurali.

“Anche se questi risultati sono preliminari – ha commentato Magdalena Sastre, autrice della ricerca – suggeriscono che questa terapia genica potrebbe avere un potenziale uso terapeutico per i pazienti. Ci sono molti ostacoli da superare, e al momento l’unico modo per fornire il gene è tramite una iniezione direttamente nel cervello. Tuttavia questo studio pilota dimostra come questo nuovo approccio meriti ulteriori indagini”. La speranza, come sempre, è che le nuove scoperte uno giorno possano fornire un metodo per prevenire la malattia, o arrestarla nelle fasi iniziali.

La ricerca, infatti, pone le basi per esplorare la terapia genica come una strategia di trattamento per la malattia di Alzheimer, ma sono necessari ulteriori studi per stabilire se questa possa essere realmente sicura, efficace e pratica da usare nell’essere umano. I risultati però non hanno a che fare solo con la terapia genica, ma confermano anche che PGC-1-alfa è un potenziale bersaglio per lo sviluppo di nuovi farmaci.

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